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Come accettare il proprio corpo e vivere sereni

Come accettare il proprio corpo e vivere sereni

7 min
di Pietro Trabucchi

Psicologo dello Sport

Che rapporto hai con il tuo corpo? Accettare il proprio corpo è il primo passo per vivere sereni. 

Il rapporto che una persona ha con la propria corporeità deriva dall’intera gamma di esperienze che, nel corso della sua crescita, hanno riguardato il suo corpo. L’esito di una serie di situazioni sufficientemente positive conduce alla capacità di identificarsi con il proprio corpo e con le sue sensazioni.

Quando l’individuo, a partire dalla prima infanzia, sperimenta molte esperienze fallimentari riguardo alla sua corporeità, la sua capacità di identificazione diventa problematica. Ci si estranea dal corpo, ad esempio, perché è diventato una fonte insopportabile di disagio. Ripetute esperienze di dolore, malattia, o di umiliazione, incompetenza e vergogna nel contesto sociale– specialmente se avvengono durante la prima infanzia, quando il soggetto è ancora troppo vulnerabile- provocano un allontanamento dal corpo, una mancata identificazione in esso.

Accettare il proprio corpo: due strategie comportamentali

Se il processo di identificazione non è pienamente riuscito, il corpo rappresenterà – nei confronti del soggetto - qualcosa di estraneo, dunque una fonte di ansia: alla persona non rimane altro da fare che sforzarsi di tenere sotto controllo questa minaccia. Come? Di solito vengono utilizzate due strategie comportamentali

La prima consiste nell’evitare accuratamente di impegnarsi in tutte quelle attività che potrebbero far rivivere i vissuti negativi provati in passato. Per esempio, un bambino preso in giro dai compagni di scuola perché giudicato “imbranato” nell’attività fisica potrebbe scegliere per il resto dei suoi giorni di evitare qualsiasi pratica sportiva. 

Oppure, al contrario - e questa è la seconda strategia - la persona potrebbe inconsapevolmente utilizzare l’attività fisica con una motivazione “compensativa”. Tante persone iper-coinvolte nei confronti dell’allenamento rivelano di possedere quella che scherzosamente ho battezzato “la sindrome dell’ex-bambino ciccione”. 

Cioè riferiscono un passato pieno di disagio o di esperienze fallimentari nel rapporto con il proprio corpo, un passato dove non è stato possibile identificarsi pienamente nella propria corporeità. In questi casi lo sport ha un’evidente funzione controbilanciante. Finché mi sento in forma, prestante e vincente – costi quel che costi - allontano la possibilità di rivivere quelle esperienze di disagio, di vergogna o di vulnerabilità che il mio stesso corpo mi ha fatto sperimentare.

Personalmente sono convinto che un po’ di motivazione compensativa sia del tutto sana: lottare per modificare una realtà che non piace, prendendosi cura di sé stessi, migliorando l’alimentazione, cercando di controllare il peso, aumentando l’efficienza fisica ha una funzione di crescita. E’ un processo che mi consente di rinforzare l’autostima, di liberarmi dall’influenza che il passato aveva sulla mia auto-immagine e di identificarmi maggiormente con il mio corpo e le sue sensazioni.

Quando l’accettazione si trasforma in bisogno compulsivo

Un pericolo - in questo tipo di motivazione – è che la cura di sé finisce facilmente per trasformarsi in un bisogno compulsivo, una sorta di costrizione a cui il soggetto è incapace di opporsi. Il disagio provocato dalla compulsione (per esempio allenarsi anche quando si è stanchi o infortunati) è pur sempre una prospettiva migliore che rivivere le esperienze penose del passato. Tutto è meglio che tornare a sentirsi il vecchio bambino ciccione di una volta. 

In questo caso il coinvolgimento nell’attività fisica diventa auto-distruttivo e totalizzante. Perché definisco “distruttivo” un simile atteggiamento? Perché chi si comporta così ha perso il senso del limite. Mi spiego: un conto è detestare di invecchiare e fare di tutto per rallentarne il processo. Un altro conto è non accettare il passare del tempo o diventare patetici fingendo che esso non abbia luogo. Un conto è cercare la forma fisica per vivere una vita più piena, un’altra cosa è vivere una vita piena solo di forma fisica. Un conto è cercare di migliorare il proprio aspetto fisico, un’altra cosa è vivere una vita totalmente incentrata sulla propria miserabile vanità.

Qual è allora il discrimine pratico che ci può aiutare a distinguere i comportamenti sani da quelli che non lo sono? Credo che in questo ci possa aiutare una celebre preghiera del teologo Reinhold Niebuhr, comunemente conosciuta come il “detto” degli Alcolisti Anonimi: «Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza.»

Questo vuol dire che alcune cose insite nella nostra corporeità non potremo mai cambiarle. E che è sano e giusto imparare ad accettarle: il fatto che siamo merce deperibile, che non siamo onnipotenti, che il tempo passa, che non saremo mai perfetti. In altre parole, accettare il proprio corpo e avere un rapporto sereno con esso presume di accettarne i limiti: quelli veri, quelli su cui non abbiamo potere, quelli su cui è inutile arrovellarsi e perdere tempo. Mentre è invece sano lavorare duro per modificare positivamente le cose che possiamo cambiare.

Accettare il proprio corpo per mantenere la serenità

Certo, non è facile mantenere uno stato d’animo sereno e un approccio equilibrato in una società che continuamente manda messaggi del tutto opposti. Che nega i limiti, che propone continuamente come veri modelli immaginari, irraggiungibili e onnipotenti. Che persegue come massimo valore il fatto di apparire sempre belli, giovani e seducenti e che - così facendo - alla fine semina un inguaribile senso di inadeguatezza e disperazione. Spetta quindi a noi, alla fine, avere abbastanza consapevolezza e serenità per scegliere tra ciò che va accettato e quello per cui vale la pena di lottare.

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